Il Natale di Seba

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“Il Natale di Seba” di Enrico Longo

“Le storie di Seba”

di Enrico Longo

n.2

Il Natale di Seba

 

E dunque la città era ritornata al suo primo nome, Città Gaia, quello che le avevano dato i padri fondatori, finalmente ricomparso nelle carte geografiche. Era tornata la gioia nelle case e nelle strade, nei vicoli, nei sentieri e nella grande piazza cittadina dove adesso campeggiava, maestosa e splendente, la stella dalle cinque punte. Pian piano la gioia era diventata entusiasmo e poi euforia che si esprimevano in una irresistibile voglia di fare festa con grida, canti e balli sfrenati. Un frastuono senza sosta e ogni mezzo era buono per fornire il personale contributo.

Accanto ai tradizionali pifferi e ai tamburi, alle nacchere e alle trombette e agli imperiosi contrabbassi, avevano iniziato a fare la loro comparsa pentole e padelle, grattugie e casseruole che, ben governate dalle abili mani dei ragazzetti o da elettrizzati nonnetti, facevano decisamente la loro bella figura. Si cantava di giorno e si cantava di sera e non mancava nemmeno qualcuno disposto perfino a rinunciare a qualche ora di sonno per poter testimoniare ai concittadini quanto alto e profondo fosse l’attaccamento alla nobile missione.

Al nostro Seba tutto questo non piaceva poi tanto: essendo, come dicevano gli altri, un po’ tradizionalista, continuava a pensare che fosse tempo di smetterla con i bagordi e di tornare alle antiche abitudini, anche perché la situazione aveva finito per vellicare le giovanili velleità canore del nonno, che esplodevano in assordanti “do di petto” in ogni occasione in cui gli capitava di emergere dal mondo dei sogni. Lo si vedeva allora rizzarsi sulla poltrona nelle reiterate pennichelle giornaliere o schizzare via dal letto durante la notte per abbandonarsi a suoni che avevano poco di gradevole o di umano. E per Seba erano continui spaventi.

E dunque si cantava, si ballava e si andavano dimenticando le buone abitudini: si lavorava quando proprio necessario, si facevano i compiti di tanto in tanto, ci si dimenticava persino di fare la spesa, non si faceva più politica.

Passarono i giorni e passarono le settimane e quando cominciarono a passare anche i mesi senza che nulla accadesse di nuovo, qualcuno cominciò a pensare che si dovesse fare qualcosa. E i qualcuno ben presto diventarono decine e poi centinaia. Tutti convinti: si deve fare qualcosa. Sì, ma cosa?

Si lessero avidamente i giornali, si consultarono gli almanacchi, si sfogliarono le enciclopedie e le pagine gialle, ma nulla sembrava rispondere alla necessità. E quando ormai si cominciava a disperare, ecco venir fuori l’idea giusta da un precoce studentello del terzo anno di scuola materna, curiosone impenitente e amante della scienza, che aveva sentito dire di uno strano arnese, chiamato smartphone, che offriva tantissime opportunità, tra le quali quella di assorbire intensamente l’attenzione, anche per lunghi periodi. Il suo secondo nome, infatti, cellulare, faceva capire come chi lo utilizzava venisse profondamente avvinto e chiuso come in una cella. Ecco, diceva il piccolo Einstein, le persone dovrebbero essere costrette a rimanere tranquille e a stare in silenzio. E via con finissimi concetti, algoritmi e teoremi. Le argomentazioni, argute e convinte, del piccolo conquistarono rapidamente tutti i membri del comitato e furono accolte con interesse dal sindaco Tromboni e da tutti i consiglieri. Fu subito fatta la delibera, immediatamente esecutiva: uno smartphone per ogni famiglia. E a seguire, come sempre accadeva, l’emendamento, anch’esso immediatamente esecutivo: uno smartphone per ogni persona. Era certamente la decisione giusta per poter sperare di tornare alla quiete.

E gli effetti della saggia decisione non tardarono a farsi sentire. Nessuno più gridava, nessuno ballava, furono riposti nei cassetti i pifferi e i tamburi, le nacchere e le trombette, mentre l’imponente contrabbasso riguadagnava l’elegante custodia. Altrettanto accadeva per le pentole e le padelle, per le grattugie e le casseruole che, dopo la breve parentesi artistica, tornavano tristemente nelle vecchie postazioni in cucina.

Lo smartphone guadagnava, giorno dopo giorno, posizione sociale. Non più oggetto utile, ma compagno di vita, mai riposto qui o là, ma sempre accanto, amico inseparabile nel gioco e durante le attese, in treno o in pullman, accanto al volante e finanche in sala operatoria. Prezioso nel lavoro, distensivo nelle pause, indispensabile accanto al libro o durante gli snervanti esercizi di matematica. Impossibile consumare il pasto senza averlo vicino o durante le non gradite visite di cui si è di tanto in tanto vittime. In questi casi, peraltro, si dovevano mettere da conto l’inarrestabile chiacchericcio e i continui disturbi. Quando, invece, si poteva godere appieno dei suoi servigi era la sera, dopo aver scrupolosamente sbarrato porte e finestre ed essersi comodamente sprofondati sulle poltrone. Allora il quadretto era perfetto. Il babbo di qua, di là la mamma, il maschietto e la femminuccia, il nonno e la nonna. Tutti in religioso silenzio, tutti con gli occhi fissi sul magico strumento, concentrati, assorti.

Nelle case era sempre così. Nessuno parlava, nessuno osava interrompere il mistico rapimento, e per chi osava farlo erano sguardi brucianti o qualcosa di peggio. Non si usciva più di casa la sera. In piazza si spensero le luci. La stella rimase al buio. Finita la scuola o il lavoro tutti correvano allo smartphone che apriva al mondo, che consentiva di comunicare, di allacciare i rapporti con persone lontane e sconosciute. Un mondo di amici? Un mondo senza frontiere?

Seba in cuor suo si rallegrava per questa ritrovata pace: poteva finalmente fare i compiti nella calma, comprendere quanto leggeva dai libri, utilizzare il giusto tempo per le sue riflessioni. Per qualche giorno recuperò la serenità perduta, solo che lo disturbava un pochino il fatto che nessuno lo ascoltasse. Non lo ascoltava la mamma che tra un’incombenza e l’altra armeggiava al cellulare, non lo degnava d’attenzione il babbo che digitava per le notizie sportive o politiche, non la sorella perennemente con le orecchie tappate dalle cuffie e neppure il nonno che aveva scoperto il fascino dei giochi e dei passatempi.

Si fece strada improvvisamente il sospetto che si fosse sbagliato ancora una volta. Che non fosse quel silenzio assoluto la giusta risposta al problema di Città Gaia. Che quel tanto decantato strumento avvicinava le persone lontane, ma allontanava quelle vicine. E poi il paese, un tempo troppo chiassoso, adesso sembrava sprofondato in un coma profondo, tra le luci spente delle strade e quella stella che sembrava non interessare più a nessuno.

Tristissima fu per Seba l’esperienza della festa del santo patrono, mai così deserta e silenziosa. Alla processione, un tempo interminabile, andarono dietro il parroco, la perpetua e due vecchiette che avevano, impellente, una grazia da chiedere. Le bancarelle ammiccanti non furono degnate di uno sguardo. Nessuno comprò nulla e nessun bambino sentì la necessità di chiedere qualcosa.

Una situazione mai vissuta, una sciagura per qualche benpensante, un dramma per il parroco, una tragedia per il sindaco Tromboni.

Cosa sarebbe successo per Natale? La stessa cosa? Rabbrividì a quel pensiero il nostro Seba e, con lui, i pochi benpensanti, il parroco e il sindaco.

Si doveva fare qualcosa. Ancora una volta e sperando di non sbagliare.

Ne parlò appassionatamente a casa per un’intera giornata e per l’altra dopo e finalmente riuscì a convincere mamma e papà, non però il nonno e la sorellina. Ne parlò il parroco in tutte le messe della mattina e della sera e qualcuno se ne fece una ragione, ne parlò il sindaco ai consiglieri, agli uscieri e agli archivisti e ottenne, con le buone o le cattive, la piena adesione. La questione fece il giro delle strade e delle piazze, entrò nei giardini e nelle case al piano terra, poi salì al primo piano e ai piani superiori. Tutti prendevano coscienza che un Natale senza luci e senza suoni sarebbe stata una iattura per Città Gaia, che avrebbe rischiato di vedersi affibbiato il nome di Città Silenziosa. Con tutti i prevedibili rischi di essere derisa dalle città vicine o di subire, ancora una volta, il depennamento dalle carte geografiche.

La decisione fu subito presa: referendum. Una sola domanda da rivolgere a tutti gli abitanti, nella piazza centrale: “Volete eliminare gli smartphone?” Due naturalmente le risposte: un SÌ o un NO.

Purtroppo però, dinanzi a una decisione così drastica, non tardarono a fare la loro apparizione anche a Città Gaia, dove ormai da tempo regnava la concordia, tutti gli accidenti e le diavolerie molto diffuse nella vicina Repubblica delle banane, uno stato abitato da persone astute e intelligenti, colte e raffinate, cariche di parole e di fantasia a tal punto che in qualunque occasione risultava difficile trovare due persone capaci di pensare alla stessa maniera. I loro discorsi erano così intrisi di concetti e di puntualizzazioni che risultava impossibile giungere a una qualche conclusione, neppure se si parlasse del giorno, dell’ora o del tempo. Sul nobile esempio della Repubblica delle banane nacquero anche a Città Gaia i partiti, le correnti, i gruppi e i sottogruppi, videro la luce i movimenti, le strategie, spuntarono gli indovini e gli opinionisti, gli stregoni e i sondaggisti.

E si costituirono i due schieramenti: i sostenitori del Sì e del No.

Gli adulti, specialmente se mamme e papà, pur tra i fatali “distinguo”, erano per eliminare quel malefico strumento; mentre combattevano la battaglia per la libertà e la democrazia, nel segno del No, gli adolescenti, i fanciulli, i bambini e qualche nonnetto che aveva ritrovato la baldanza degli anni che furono.

Gli schieramenti si presentavano in assoluto equilibrio di forze. Ecco perché, da una parte e dall’altra, si cercava di pescare tra gli indifferenti e gli indecisi, in particolare tra i single per fatalità o per libera scelta.

I cellulari divennero l’unico argomento nelle discussioni. Se ne discuteva in ogni luogo e in ogni occasione e la sera non si avevano occhi e orecchie che per i talk show, dove gli ospiti facevano a gara nel trovare la frase a effetto e a spararla più grossa.

Erano in pericolo il quieto vivere – si diceva – la salute dei cittadini, la libertà, la democrazia, la stessa esistenza di Città Gaia. E su queste tragiche posizioni convergevano entrambi gli schieramenti.

Giunse il giorno del referendum. Tutti in piazza. I cittadini, chiamati a uno a uno dal sindaco Tromboni, esprimevano il proprio Sì o il proprio No sollevando in alto uno dei due cartelli, posti su un tavolo al centro della piazza. Le preferenze furono sin da subito perfettamente bilanciate. I Sì e i No si succedevano in assoluta regolarità. Perfetta parità, gridò il Tromboni, prima che l’ultimo cittadino fosse chiamato a votare. Tutti si volsero verso Seba che se n’era rimasto rannicchiato a un angolo della piazza. Adesso prendeva coscienza della grave responsabilità che pesava sulle sue spalle: il suo voto avrebbe deciso il destino di Città Gaia.

Il tempo sembrò fermarsi. Era un momento importante, decisivo, il più importante e decisivo di tutta la sua vita. Andava col pensiero agli amici che vivevano per lo smartphone, al frastuono assordante e al cupo silenzio che si erano succeduti nella sua città e trovava uguali ragioni per il sì e per il no. Ma perché una decisione così drastica? Non esisteva altro modo per conciliare le due tesi e riportare l’armonia in Città Gaia, che aveva meritato quel nome proprio in virtù di una convivenza segnata dalla reciproca comprensione e dall’amicizia? Può una decisione creare una frattura così profonda? Può un referendum dividere un popolo unito e solidale? E mentre andava rimuginando questi pensieri, gli vennero alla mente le parole della maestra che andava ripetendo: «A scuola niente smartphone, c’è un tempo per giocare e un tempo per studiare…»; e gli vennero in mente le parole solennemente pronunciate dal parroco, prese da chissà dove, che dicevano più o meno la stessa cosa, insomma che ci fosse il tempo per fare qualcosa e qualcos’altro.

Se ha ragione dunque la maestra e se dice bene il parroco, si deve trovare il modo per salvare capre e cavoli, come si racconta nella storiella, per trovare una soluzione che faccia tutti contenti.

Guardò dunque a destra e colse gli sguardi imploranti il Sì; si girò a sinistra e non gli sfuggì la tacita preghiera per il No e, improvvisamente, con ritrovata baldanza, raggiunse il tavolo al centro della piazza e brandì in alto i due cartelli, esclamando a gran voce: io voto Sì e voto No, perché non mi piacciono le fazioni, perché non si possono perdere i diritti per un semplice voto in meno, perché amo la mia gente e vorrei vederla in pace.

A queste parole seguì un assordante… silenzio. Nessuno parlava, tutti pensavano e riflettevano, ma la soluzione non veniva fuori, fin quando non tornò in scena lo studentello del terzo anno della materna, che non aveva mai smesso di amare la scienza, il quale, con voce stridula ma ferma esclamò: «c’è tempo per usare lo smartphone e c’è tempo per fare qualcos’altro; basta prendere foglio e penna e stabilire gli orari». A queste parole si levò altissimo l’applauso, tutti si alzarono in piedi, le forze dell’ordine scattarono sull’attenti e i vigili esposero il gonfalone. Il Tromboni, verso cui si volsero gli sguardi di tutti gli astanti, con piglio deciso e dopo un colpetto di tosse, imperioso sentenziò: «È fatto assoluto divieto di usare lo smartphone agli impiegati, agli scolari, ai chirurghi e ai camionisti durante le ore di lavoro». Invitò, poi, mamme e papà a ridurre le ore che trascorrevano incollati a teleschermi e cellulari. Avrebbero curato che i figli non avessero accanto lo smartphone durante il pranzo e nei pochi minuti di studio, anche per evitare che potesse finire nel brodo o nel ragù o per creare insulsi minestroni di nozioni e banalità. Per lo studentello di scuola materna propose il passaggio anticipato di una settimana nella scuola primaria e la consegna di un enorme leccalecca con i colori nazionali, a forma di lampadina perché tutti ricordassero la sua trovata di genio. Infine si rivolse al parroco, ai commercianti e agli elettricisti perché ciascuno, per la propria parte, contribuisse a preparare un Natale coi fiocchi.

Cosa che puntualmente avvenne. Mai infatti si ebbe a Città Gaia un Natale così bello e felice: ricche e artistiche le luminarie, debordanti e subito vuote le bancarelle, colma la chiesa di gente e di dolcissimi canti, interminabile la processione. Splendente di luci e di colori, al centro della piazza, la stella dalle cinque punte, a testimoniare che fede, amore, lavoro, cultura e solidarietà erano finalmente tornati.

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Fiera del turismo e del tempo libero di San Gallo (CH) – Conferenza Stampa

Galatone (Le) – 19 dicembre 2016 – Associazione Pro Loco – Conferenza Stampa “Fiera del turismo e del tempo libero di San Gallo”(CH) – Interventi di Donato Manisco (Vicepresidente Pro Loco), Alessandro Inguscio (Segretario Pro Loco), Livio Nisi (Sindaco di Galatone) e Massimo Pillera (UDIS CH) – Video di Mauro Longo

 

20/22 Gennaio 2017 – Fiera del turismo e del tempo libero di San Gallo (CH)

 

L’Associazione Pro Loco, nell’ambito delle proprie prerogative di promozione del territorio, divenute prioritarie nel quadro delle iniziative intraprese, transitanti dal potenziamento dell’ufficio d’informazione turistica, dalle indagini di mercato e da una serie di iniziative che vanno in quella direzione, sta organizzando la partecipazione alla “Fiera del turismo e tempo libero di San Gallo” in Svizzera dal 20 al 22 gennaio 2017 denominata “Grenzenlos”.

I flussi turistici della vicina Svizzera all’Italia, intensificatisi in questi ultimi anni, le nostre ricchezze artistiche architettoniche insieme alle nostre tipicità, rappresentano un fattore attrattivo importante.

L’associazione, per questa iniziativa, si avvarrà del Patrocinio, della collaborazione  dell’Amministrazione Comunale di Galatone e del sostegno di alcune aziende locali nei settori produttivi e dell’accoglienza che, ancora una volta riconoscono nella operatività della Pro Loco un riferimento importante che ci onora.

L’iniziativa è stata resa possibile altresì dalla collaborazione attivatasi con la “UDIS CH”, l’Associazione degli italo-svizzeri nel mondo, rappresentata in Puglia dal tranese Dott. Massimo Pillera. L’UDIS sosterrà l’intera organizzazione a livello di contatti e di pubblicizzazione dell’evento in territorio svizzero.

Questa esperienza si avvarrà inoltre del Patrocinio di GAL Terre d’Arneo, PugliaPromozione e del Consorzio Puglia DOC.

Inoltre, queste sono le aziende che hanno sostenuto l’iniziativa: Tenute Vini Gabellone (Nardò), Panetteria Pasticceria Bove (Galatone), Gioia Coffee Drink and Restaurant (Galatone), Ekalò (Martano), Dimora Moresca (Galatone), Nuova Colì s.r.l. (Cutrofiano), Cantina Sociale Nardò, Masseria Doganieri (Galatone), Agricola Galatea 1931 (Galatone), Fifla Agenzia Viaggi (Galatone).

Rappresenteranno la città di Galatone il sindaco Livio Nisi e l’ass. Sondra dall’Oco, la  Pro loco sarà rappresentata da il vicepresidente Donato Manisco, il segretario Alessandro Inguscio, i consiglieri Federica Pano, Luigi Marcuccio e Cosimo Pisanelli, è prevista infine la presenza della sig.ra Paola Meledoro (Dimora Moresca), Marco Gabellone (Tenute vini Gabellone), Donato Bruno (Cantina sociale Nardò).

Sono previsti incontri a livello istituzionale ed associativo a San Gallo e a Zurigo.

La Luce della Pace di Betlemme a Galatone (18 dicembre 2016)

Galatone (Le) – 18 dicembre 2016 – Piazza San Sebastiano – Mercatini di Natale – Distribuzione della Luce della Pace di Betlemme da parte della Comunità Masci – Interventi di Caterina Aprile (Comunità Masci Galatone) e Alberto Deana (Capo Scout Agesci Trieste) – Interventi musicali di Federica Palma – Video di Mauro Longo

La speranza di Seba

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“La speranza di Seba” di Enrico Longo

 “Le storie di Seba”

di Enrico Longo

n.1

 

La speranza di Seba

 

Città Gaia era scritto sulla carta geografica; Città Triste l’avevano ribattezzata i suoi abitanti. E il nome sembrava senza dubbio calzante, perché oltre il sole e il mare e le vestigia di un passato che alcune leggende descrivevano onorevole, non c’era nient’altro: soltanto una lunga distesa pianeggiante ricoperta d’erbacce e di rovi, dove come per miracolo spuntavano erbe selvatiche buone al palato e colorate bacche dolci e succose: il cibo che la mano della Provvidenza aveva destinato per loro. E infatti sempre e soltanto bacche ed erbe selvatiche potevano vedere a tavola i suoi abitanti, la mattina a colazione, e poi ancora erbe e bacche a pranzo, e lo stesso a cena. Sempre così, anche la domenica e il giorno di Pasqua. Bacche ed erbe anche a Natale e il 32 gennaio, la principale festa cittadina. Gli abitanti di Città Triste erano persone perbene, oneste, non avevano mai rubato, anche perché non si potevano rubare il sole o il mare, né sembrava opportuno, tutto sommato, rubare i rovi o le erbacce, che venivano fuori in grande quantità. Avevano però, queste persone, dimenticato le cose buone di un tempo, muovere braccia e gambe e guardarsi intorno, parlare e ascoltare, come vuole il buon Dio, che ci ha dato, per tale occorrenza, una bocca e due orecchie. Nessuno aveva più cura di ramazzare la piazzetta cittadina, anche perché nessuno ormai ci metteva la punta del naso: tutti erano intenti ad ascoltare le chiamate delle Muse. E non c’era mano che si preoccupasse di dar decoro alla chiesetta, che se ne restava ormai negletta e abbandonata; da tempo ormai s’era dimenticato il suono argentino della sua campanella, che alle sei del mattino dava la sveglia e richiamava ai doveri giornalieri. Il fatto è che i cittadini di Città Triste non avevano più tempo per queste cose, inutili e banali. Avevano scoperto di essere grandi artisti e illustri geni, ciascuno almeno un metro al di sopra degli altri. In ogni famiglia c’erano almeno tre artisti su quattro; pochi però ce n’erano tra le donne, specie se sposate, quelle che ogni giorno avevano il poco invidiabile compito di preparare il pranzo e servire a tavola. In quei particolari momenti in ogni famiglia c’erano litigi e grida, le mogli si facevano sentire, a volte accompagnandosi con strumenti da cucina, alcuni dei quali furono detti matterelli perché usati da quelle donne nelle occasioni in cui erano veramente “fuori dai gangheri”. Sebastiano era il solo a custodire in cuor suo la segreta speranza che potessero tornare, prima o poi, i tempi che furono: li aveva sentiti dal babbo, che li aveva sentiti dal nonno, e questi dal bis e dal doppio-triplo e quadruplo bis. Tempi felici e di abbondanza e persone diverse, tanto tanto diverse e altro non aggiungeva perché non era riuscito del tutto a comprendere.  E nella speranza di un felice ritorno al passato, pensò bene di farsi carico di tutte le incombenze. Correva dunque di qua e di là, senza posa, dall’alba al tramonto, con quel piccolo intervallo delle ore di scuola, utili a riempire la testa di numeri e di concetti. Ma poi subito di nuovo a casa, sempre di corsa e sempre di fretta. Così andavano avanti le giornate di Sebastiano, costretto dalla frenesia del procedere a risparmiare perfino sul nome, troppo lungo da pronunciare e ridotto a Seba. Ormai tutti Seba lo chiamavano e così aveva finito per chiamarsi anche lui. Risparmiare sul tempo per fare qualcosa in più, in quella vita di fatica e di silenzi. Perché nessuno aveva tempo per guardare agli altri, scambiarsi una parola, un saluto, per fare una chiacchierata. Le giornate del nostro Seba si aprivano alle prime luci dell’alba con la necessità di tirare la coda al gallo che, scoraggiato per non essere più ascoltato da nessuno, aveva ormai rinunciato perfino a lanciare il suo precoce chicchirichì. La situazione turbava perfino i santi protettori di Città Triste, che guardavano con preoccupazione alla chiesetta abbandonata e all’indifferenza generale degli uni con gli altri. Non c’era fede a Città Triste, né amore, né solidarietà, per cui finirono anche loro, che tutti sappiamo armati di santa pazienza, col perdere le staffe e decidere di scendere in campo. E nei drammatici avvenimenti che seguirono si può certamente notare la loro presenza. Una signora, una tale Demonia De Svitatiis, si diede un giorno col suo matterello a menare non solo al marito e a tutti i figli maschi, ma anche sui quadri, quadretti e sui fogli di musica, gridando con ferocia: «Ve la do io la musica, ve la do io la pittura se poi non c’è nulla da mangiare, se dobbiamo sempre assaporare quel maledettissimo sapore dolciastro delle bacche e quello amarognolo dell’erba selvatica». Alcuni mariti, spaventati, pensarono che fosse prudente allontanarsi per un certo periodo dalla loro città e decisero di andare in volontario esilio in altra più igienica zona, sino all’avvento di giorni più propizi. Approdarono a Cerealiland, una cittadina non troppo lontana, non bella e pittoresca come Città Triste, priva di artisti e poeti e abitata solo da contadini, non molto istruiti, ma onesti, forti e laboriosi. Qui non si riposava mai, tutti sempre a lavorare, sempre a coltivare i campi. Non c’era l’università in questa cittadina, né scuole liceali, c’erano soltanto tre asili  infantili e mezza scuola elementare, nessuno conosceva il latino, nessuno sapeva di greco, tutti odiavano le lingue straniere. La loro passione erano i campi, gli alberi da frutta e le erbe… coltivate. Quella più diffusa era una certa spiga che, a loro dire, era la pianta più nobile e preziosa. Ai profughi sembrava strano tutto ciò e qualche volta, di nascosto, ridevano della dabbenaggine di quella gente, che passava tanto tempo a curare quella strana pianta, piccola, con uno stelo talmente risicato, così magra e smunta da sembrare l’emblema della fame, non certo dell’abbondanza. E invece per quelli era la pianta più nobile, più preziosa, più utile. Osservavano attentamente il loro operato e li vedevano gioire quando pioveva. Dicevano: «Meno male che piove. Chissà come si disseteranno le spighe.» E quando per lungo tempo non pioveva, li vedevano afflitti: «Chissà come soffriranno le spighe per questa lunga siccità.» E subito giù a portare acqua, a costruire argini intorno al fiume, a fare canali e a dirigere l’acqua verso le spighe. E poi tutti soddisfatti a dire: «Siamo stanchi, ma almeno le spighe staranno finalmente bene.» La sera, tutti insieme, seduti accanto al fuoco nello spiazzo più grande, parlavano e cantavano, bevevano e ballavano e si raccontavano le storie più belle e non dimenticavano di guardare al Cielo e di ringraziare il Creatore. La domenica mattina, tutti insieme nella chiesetta, linda e pulita, dove veniva solennemente riposta la spiga più bella. Quando arrivò la primavera non pensarono più all’acqua e sembravano contenti nelle giornate di sole. Li si sentiva dire: «Forza sole, asciugale, rinforzale, biondeggiale!» .
In una giornata di giugno i nostri esuli furono svegliati da un colpo di cannone, dal cantare dei galli, da campane e campanelle, da trombette e tric trac. Per tutte le strade era tutto un correre: correvano gli uomini, correvano le donne, correvano i vecchi, i bambini, gli zii e i cognati, i nipoti e i cugini; tutti verso i campi, saltando, cantando, sghignazzando. Cos’era successo? si chiesero. La rivoluzione? Sono scesi i marziani? Niente di tutto questo. Andavano tutti a tagliare le spighe e le accumulavano, ne facevano mucchi, le battevano, nei giorni successivi presero a calpestarle. A chi chiese spiegazioni fu risposto che era arrivato il tempo del raccolto, i giorni dell’abbondanza e della felicità. E quindi videro quelle spighe ridotte in polvere e poi impastate con acqua e prendere forme strane. Sentirono dire che quella roba era la più gustosa leccornia esistente. Furono invitati, increduli, i nostri esuli, al primo banchetto ufficiale e ne restarono conquistati. Improvvisamente capirono di aver sbagliato tutto. Decisero dunque che dovevano fare qualcosa per le loro donne, per i loro bambini, per i loro vecchi. Anzitutto presero a pulire le stradine della loro città e curarono in ogni modo la chiesetta, che divenne pulita, accogliente e profumata d’incenso e di fiori. Tornarono a guardarsi negli occhi e a parlare, a raccontare le cose belle e le cose tristi e a saper trovare ogni volta le parole più opportune. Ricordarono quanto avevano visto durante il loro esilio e il miracolo di quella esile pianta che portava abbondanza e benessere. Dissodarono il terreno e vi deposero le preziose sementi, lavorarono e lavorarono, sudarono e sudarono. Non pensarono mai alla fatica e alla sofferenza: fecero esattamente tutto ciò che avevano visto fare agli abitanti di Cerealiland. Con l’aggiunta di una cosa soltanto. Come ho detto, essi erano artisti e vollero dare il tocco della loro arte a quella cosa che chiamarono pasta. E così vennero fuori le tagliatelle, i rigatoni, le lasagne lisce e ricciolute, i granulini, i maccheroni. Tutte le forme di pasta che oggi vediamo sulle nostre tavole fecero la loro prima apparizione nelle felici tavolate di Città Gaia, non più Triste. Tutti erano soddisfatti, tutti erano beati, ma più beati e soddisfatti erano le mogli e i camerieri che, finalmente, ricevevano sorrisi e complimenti quando presentavano i piatti in tavola. Il nostro Seba, che aveva ormai più tempo a disposizione, pensò che fosse tempo di recuperare la seconda parte del suo nome e tornò a chiamarsi Sebastiano. Per quanto riguarda i santi protettori, decisero di riprendersi la normale pazienza, solo però dopo aver controllato che tutti gli abitanti, uno per uno, avessero recuperato i principi fondamentali del buon vivere. E per essere certi che non se ne potessero più dimenticare, pensarono bene di far ricorso a un pesante promemoria. Una stella presa dal cielo e deposta nel bel mezzo della loro città, con le sue cinque punte a ricordare che fede-amore-lavoro-cultura e solidarietà danno senso e significato all’esistenza. Quell’anno diedero un sapore mai provato alla festa del Natale.

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Intervista ad Enrico Lo Verso

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Mauro Longo intervista Enrico Lo Verso

Galatone (Le) – 16 dicembre 2016 –  Teatro Comunale – Mauro Longo intervista l’attore Enrico Lo Verso in occasione della rappresentazione teatrale “Uno Nessuno  Centomila” di Luigi Pirandello, adattamento e regia di Alessandra Pizzi .

Podcast audio:

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Mauro Longo intervista Enrico Lo Verso

L’amore, la morte, il destino: le donne del mito da Omero a Pavese

Nardò (Le) – 16 dicembre 2016 – Seminario Diocesano – La Delegazione AICC di Nardò “Maria Dell’Atti De Metrio” ha organizzato la conferenza “L’amore, la morte, il destino: le donne del mito da Omero a Pavese” tenuta dalla prof.ssa Alessandra Manieri (Unisalento) – Ha introdotto Alberta Barone (AICC Nardò – docente) – Ha moderato Sabrina Vissicchio (AICC Nardò – docente) – Nel video gli interventi di Alfredo Sanasi (Presidente Delegazione AICC di Nardò) e Alessandra Manieri – Video di Mauro Longo

“Festa dei Bambini” 2016

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Galatone (Le) – 11 dicembre 2016 – Piazza Pertini – “Festa dei Bambini” a cura dell’Associazione Sportiva Culturale “Punto Danza” all’interno della manifestazione “Gustiamo l’Arte” organizzata dall’Unione Commercianti – Animatori: I bambini della Scuola Primaria del Polo 1 dei plessi “Don Lorenzo Milani” e “Giuseppe Susanna” e della Scuola Media “A. De Ferraris” e i bambini della Scuola dell’Infanzia “C. Collodi” del Polo 2 – Colori, voci, suoni e danze… un viaggio in un regno fatato abitato da misteriose creature: folletti, fatine, principi, maghi, streghette e stregoni – Video di Mauro Longo