
“Il Natale di Seba” di Enrico Longo
“Le storie di Seba”
di Enrico Longo
n.2
Il Natale di Seba
E dunque la città era ritornata al suo primo nome, Città Gaia, quello che le avevano dato i padri fondatori, finalmente ricomparso nelle carte geografiche. Era tornata la gioia nelle case e nelle strade, nei vicoli, nei sentieri e nella grande piazza cittadina dove adesso campeggiava, maestosa e splendente, la stella dalle cinque punte. Pian piano la gioia era diventata entusiasmo e poi euforia che si esprimevano in una irresistibile voglia di fare festa con grida, canti e balli sfrenati. Un frastuono senza sosta e ogni mezzo era buono per fornire il personale contributo.
Accanto ai tradizionali pifferi e ai tamburi, alle nacchere e alle trombette e agli imperiosi contrabbassi, avevano iniziato a fare la loro comparsa pentole e padelle, grattugie e casseruole che, ben governate dalle abili mani dei ragazzetti o da elettrizzati nonnetti, facevano decisamente la loro bella figura. Si cantava di giorno e si cantava di sera e non mancava nemmeno qualcuno disposto perfino a rinunciare a qualche ora di sonno per poter testimoniare ai concittadini quanto alto e profondo fosse l’attaccamento alla nobile missione.
Al nostro Seba tutto questo non piaceva poi tanto: essendo, come dicevano gli altri, un po’ tradizionalista, continuava a pensare che fosse tempo di smetterla con i bagordi e di tornare alle antiche abitudini, anche perché la situazione aveva finito per vellicare le giovanili velleità canore del nonno, che esplodevano in assordanti “do di petto” in ogni occasione in cui gli capitava di emergere dal mondo dei sogni. Lo si vedeva allora rizzarsi sulla poltrona nelle reiterate pennichelle giornaliere o schizzare via dal letto durante la notte per abbandonarsi a suoni che avevano poco di gradevole o di umano. E per Seba erano continui spaventi.
E dunque si cantava, si ballava e si andavano dimenticando le buone abitudini: si lavorava quando proprio necessario, si facevano i compiti di tanto in tanto, ci si dimenticava persino di fare la spesa, non si faceva più politica.
Passarono i giorni e passarono le settimane e quando cominciarono a passare anche i mesi senza che nulla accadesse di nuovo, qualcuno cominciò a pensare che si dovesse fare qualcosa. E i qualcuno ben presto diventarono decine e poi centinaia. Tutti convinti: si deve fare qualcosa. Sì, ma cosa?
Si lessero avidamente i giornali, si consultarono gli almanacchi, si sfogliarono le enciclopedie e le pagine gialle, ma nulla sembrava rispondere alla necessità. E quando ormai si cominciava a disperare, ecco venir fuori l’idea giusta da un precoce studentello del terzo anno di scuola materna, curiosone impenitente e amante della scienza, che aveva sentito dire di uno strano arnese, chiamato smartphone, che offriva tantissime opportunità, tra le quali quella di assorbire intensamente l’attenzione, anche per lunghi periodi. Il suo secondo nome, infatti, cellulare, faceva capire come chi lo utilizzava venisse profondamente avvinto e chiuso come in una cella. Ecco, diceva il piccolo Einstein, le persone dovrebbero essere costrette a rimanere tranquille e a stare in silenzio. E via con finissimi concetti, algoritmi e teoremi. Le argomentazioni, argute e convinte, del piccolo conquistarono rapidamente tutti i membri del comitato e furono accolte con interesse dal sindaco Tromboni e da tutti i consiglieri. Fu subito fatta la delibera, immediatamente esecutiva: uno smartphone per ogni famiglia. E a seguire, come sempre accadeva, l’emendamento, anch’esso immediatamente esecutivo: uno smartphone per ogni persona. Era certamente la decisione giusta per poter sperare di tornare alla quiete.
E gli effetti della saggia decisione non tardarono a farsi sentire. Nessuno più gridava, nessuno ballava, furono riposti nei cassetti i pifferi e i tamburi, le nacchere e le trombette, mentre l’imponente contrabbasso riguadagnava l’elegante custodia. Altrettanto accadeva per le pentole e le padelle, per le grattugie e le casseruole che, dopo la breve parentesi artistica, tornavano tristemente nelle vecchie postazioni in cucina.
Lo smartphone guadagnava, giorno dopo giorno, posizione sociale. Non più oggetto utile, ma compagno di vita, mai riposto qui o là, ma sempre accanto, amico inseparabile nel gioco e durante le attese, in treno o in pullman, accanto al volante e finanche in sala operatoria. Prezioso nel lavoro, distensivo nelle pause, indispensabile accanto al libro o durante gli snervanti esercizi di matematica. Impossibile consumare il pasto senza averlo vicino o durante le non gradite visite di cui si è di tanto in tanto vittime. In questi casi, peraltro, si dovevano mettere da conto l’inarrestabile chiacchericcio e i continui disturbi. Quando, invece, si poteva godere appieno dei suoi servigi era la sera, dopo aver scrupolosamente sbarrato porte e finestre ed essersi comodamente sprofondati sulle poltrone. Allora il quadretto era perfetto. Il babbo di qua, di là la mamma, il maschietto e la femminuccia, il nonno e la nonna. Tutti in religioso silenzio, tutti con gli occhi fissi sul magico strumento, concentrati, assorti.
Nelle case era sempre così. Nessuno parlava, nessuno osava interrompere il mistico rapimento, e per chi osava farlo erano sguardi brucianti o qualcosa di peggio. Non si usciva più di casa la sera. In piazza si spensero le luci. La stella rimase al buio. Finita la scuola o il lavoro tutti correvano allo smartphone che apriva al mondo, che consentiva di comunicare, di allacciare i rapporti con persone lontane e sconosciute. Un mondo di amici? Un mondo senza frontiere?
Seba in cuor suo si rallegrava per questa ritrovata pace: poteva finalmente fare i compiti nella calma, comprendere quanto leggeva dai libri, utilizzare il giusto tempo per le sue riflessioni. Per qualche giorno recuperò la serenità perduta, solo che lo disturbava un pochino il fatto che nessuno lo ascoltasse. Non lo ascoltava la mamma che tra un’incombenza e l’altra armeggiava al cellulare, non lo degnava d’attenzione il babbo che digitava per le notizie sportive o politiche, non la sorella perennemente con le orecchie tappate dalle cuffie e neppure il nonno che aveva scoperto il fascino dei giochi e dei passatempi.
Si fece strada improvvisamente il sospetto che si fosse sbagliato ancora una volta. Che non fosse quel silenzio assoluto la giusta risposta al problema di Città Gaia. Che quel tanto decantato strumento avvicinava le persone lontane, ma allontanava quelle vicine. E poi il paese, un tempo troppo chiassoso, adesso sembrava sprofondato in un coma profondo, tra le luci spente delle strade e quella stella che sembrava non interessare più a nessuno.
Tristissima fu per Seba l’esperienza della festa del santo patrono, mai così deserta e silenziosa. Alla processione, un tempo interminabile, andarono dietro il parroco, la perpetua e due vecchiette che avevano, impellente, una grazia da chiedere. Le bancarelle ammiccanti non furono degnate di uno sguardo. Nessuno comprò nulla e nessun bambino sentì la necessità di chiedere qualcosa.
Una situazione mai vissuta, una sciagura per qualche benpensante, un dramma per il parroco, una tragedia per il sindaco Tromboni.
Cosa sarebbe successo per Natale? La stessa cosa? Rabbrividì a quel pensiero il nostro Seba e, con lui, i pochi benpensanti, il parroco e il sindaco.
Si doveva fare qualcosa. Ancora una volta e sperando di non sbagliare.
Ne parlò appassionatamente a casa per un’intera giornata e per l’altra dopo e finalmente riuscì a convincere mamma e papà, non però il nonno e la sorellina. Ne parlò il parroco in tutte le messe della mattina e della sera e qualcuno se ne fece una ragione, ne parlò il sindaco ai consiglieri, agli uscieri e agli archivisti e ottenne, con le buone o le cattive, la piena adesione. La questione fece il giro delle strade e delle piazze, entrò nei giardini e nelle case al piano terra, poi salì al primo piano e ai piani superiori. Tutti prendevano coscienza che un Natale senza luci e senza suoni sarebbe stata una iattura per Città Gaia, che avrebbe rischiato di vedersi affibbiato il nome di Città Silenziosa. Con tutti i prevedibili rischi di essere derisa dalle città vicine o di subire, ancora una volta, il depennamento dalle carte geografiche.
La decisione fu subito presa: referendum. Una sola domanda da rivolgere a tutti gli abitanti, nella piazza centrale: “Volete eliminare gli smartphone?” Due naturalmente le risposte: un SÌ o un NO.
Purtroppo però, dinanzi a una decisione così drastica, non tardarono a fare la loro apparizione anche a Città Gaia, dove ormai da tempo regnava la concordia, tutti gli accidenti e le diavolerie molto diffuse nella vicina Repubblica delle banane, uno stato abitato da persone astute e intelligenti, colte e raffinate, cariche di parole e di fantasia a tal punto che in qualunque occasione risultava difficile trovare due persone capaci di pensare alla stessa maniera. I loro discorsi erano così intrisi di concetti e di puntualizzazioni che risultava impossibile giungere a una qualche conclusione, neppure se si parlasse del giorno, dell’ora o del tempo. Sul nobile esempio della Repubblica delle banane nacquero anche a Città Gaia i partiti, le correnti, i gruppi e i sottogruppi, videro la luce i movimenti, le strategie, spuntarono gli indovini e gli opinionisti, gli stregoni e i sondaggisti.
E si costituirono i due schieramenti: i sostenitori del Sì e del No.
Gli adulti, specialmente se mamme e papà, pur tra i fatali “distinguo”, erano per eliminare quel malefico strumento; mentre combattevano la battaglia per la libertà e la democrazia, nel segno del No, gli adolescenti, i fanciulli, i bambini e qualche nonnetto che aveva ritrovato la baldanza degli anni che furono.
Gli schieramenti si presentavano in assoluto equilibrio di forze. Ecco perché, da una parte e dall’altra, si cercava di pescare tra gli indifferenti e gli indecisi, in particolare tra i single per fatalità o per libera scelta.
I cellulari divennero l’unico argomento nelle discussioni. Se ne discuteva in ogni luogo e in ogni occasione e la sera non si avevano occhi e orecchie che per i talk show, dove gli ospiti facevano a gara nel trovare la frase a effetto e a spararla più grossa.
Erano in pericolo il quieto vivere – si diceva – la salute dei cittadini, la libertà, la democrazia, la stessa esistenza di Città Gaia. E su queste tragiche posizioni convergevano entrambi gli schieramenti.
Giunse il giorno del referendum. Tutti in piazza. I cittadini, chiamati a uno a uno dal sindaco Tromboni, esprimevano il proprio Sì o il proprio No sollevando in alto uno dei due cartelli, posti su un tavolo al centro della piazza. Le preferenze furono sin da subito perfettamente bilanciate. I Sì e i No si succedevano in assoluta regolarità. Perfetta parità, gridò il Tromboni, prima che l’ultimo cittadino fosse chiamato a votare. Tutti si volsero verso Seba che se n’era rimasto rannicchiato a un angolo della piazza. Adesso prendeva coscienza della grave responsabilità che pesava sulle sue spalle: il suo voto avrebbe deciso il destino di Città Gaia.
Il tempo sembrò fermarsi. Era un momento importante, decisivo, il più importante e decisivo di tutta la sua vita. Andava col pensiero agli amici che vivevano per lo smartphone, al frastuono assordante e al cupo silenzio che si erano succeduti nella sua città e trovava uguali ragioni per il sì e per il no. Ma perché una decisione così drastica? Non esisteva altro modo per conciliare le due tesi e riportare l’armonia in Città Gaia, che aveva meritato quel nome proprio in virtù di una convivenza segnata dalla reciproca comprensione e dall’amicizia? Può una decisione creare una frattura così profonda? Può un referendum dividere un popolo unito e solidale? E mentre andava rimuginando questi pensieri, gli vennero alla mente le parole della maestra che andava ripetendo: «A scuola niente smartphone, c’è un tempo per giocare e un tempo per studiare…»; e gli vennero in mente le parole solennemente pronunciate dal parroco, prese da chissà dove, che dicevano più o meno la stessa cosa, insomma che ci fosse il tempo per fare qualcosa e qualcos’altro.
Se ha ragione dunque la maestra e se dice bene il parroco, si deve trovare il modo per salvare capre e cavoli, come si racconta nella storiella, per trovare una soluzione che faccia tutti contenti.
Guardò dunque a destra e colse gli sguardi imploranti il Sì; si girò a sinistra e non gli sfuggì la tacita preghiera per il No e, improvvisamente, con ritrovata baldanza, raggiunse il tavolo al centro della piazza e brandì in alto i due cartelli, esclamando a gran voce: io voto Sì e voto No, perché non mi piacciono le fazioni, perché non si possono perdere i diritti per un semplice voto in meno, perché amo la mia gente e vorrei vederla in pace.
A queste parole seguì un assordante… silenzio. Nessuno parlava, tutti pensavano e riflettevano, ma la soluzione non veniva fuori, fin quando non tornò in scena lo studentello del terzo anno della materna, che non aveva mai smesso di amare la scienza, il quale, con voce stridula ma ferma esclamò: «c’è tempo per usare lo smartphone e c’è tempo per fare qualcos’altro; basta prendere foglio e penna e stabilire gli orari». A queste parole si levò altissimo l’applauso, tutti si alzarono in piedi, le forze dell’ordine scattarono sull’attenti e i vigili esposero il gonfalone. Il Tromboni, verso cui si volsero gli sguardi di tutti gli astanti, con piglio deciso e dopo un colpetto di tosse, imperioso sentenziò: «È fatto assoluto divieto di usare lo smartphone agli impiegati, agli scolari, ai chirurghi e ai camionisti durante le ore di lavoro». Invitò, poi, mamme e papà a ridurre le ore che trascorrevano incollati a teleschermi e cellulari. Avrebbero curato che i figli non avessero accanto lo smartphone durante il pranzo e nei pochi minuti di studio, anche per evitare che potesse finire nel brodo o nel ragù o per creare insulsi minestroni di nozioni e banalità. Per lo studentello di scuola materna propose il passaggio anticipato di una settimana nella scuola primaria e la consegna di un enorme leccalecca con i colori nazionali, a forma di lampadina perché tutti ricordassero la sua trovata di genio. Infine si rivolse al parroco, ai commercianti e agli elettricisti perché ciascuno, per la propria parte, contribuisse a preparare un Natale coi fiocchi.
Cosa che puntualmente avvenne. Mai infatti si ebbe a Città Gaia un Natale così bello e felice: ricche e artistiche le luminarie, debordanti e subito vuote le bancarelle, colma la chiesa di gente e di dolcissimi canti, interminabile la processione. Splendente di luci e di colori, al centro della piazza, la stella dalle cinque punte, a testimoniare che fede, amore, lavoro, cultura e solidarietà erano finalmente tornati.
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