La Notte Nazionale del Liceo Classico 2020 – Nardò (Le)

Nardò (Le) – 17 gennaio 2020 – Liceo Classico “G. Galilei”La Notte Nazionale del Liceo Classico – Foto di Antonio Calò e Chiara De Vitis – Video di Mauro Longo

L’emozione corre sui tasti del pianoforte, sulle corde dei violini, in un’atmosfera serena ed accogliente, piena di entusiasmo e passione.

Quattro parole: NOTTE NAZIONALE LICEO CLASSICO, evento approvato dal MIUR, con la media partnership di Rai Scuola e Rai Cultura, con il patrocinio dell’Associazione Italiana di Cultura Classica Nazionale.

Luogo: Liceo Classico “Galilei “Nardò.

Protagonisti: gli studenti, giovani classicisti di talento e buona volontà.

Intorno a loro docenti premurosi e pronti a dipingere la tela della conoscenza di tutti i colori che conoscono.

Canti di ragazzi, movimenti sinuosi nell’aria, solenni declamazioni nella lingua dei Patres, alla presenza di tanti ospiti.

Ogni cosa brilla di speranza, di promesse.

La Cultura Classica urla nei cuori di questa gioventù che studia i Classici, sapendo di poter imparare da loro ogni giorno una lezione antica ma sempre nuova!

Libriamoci! Giornate di lettura nelle scuole – I.C. Polo 1 Galatone (Le)

Galatone (Le) – 13/14 novembre 2019 – Scuola Primaria “Don L. Milani” – Partecipazione delle classi quinte del plesso “Don L. Milani” nell’ambito del progetto “Lector in fabula”. Gli alunni di classe quinta hanno animato momenti di lettura tratti dalle “Favole al telefono” di Gianni Rodari, creando un’atmosfera di partecipazione attiva e ascolto dei bambini di classe seconda. Alla fine dell’ascolto, i piccoli, con il supporto dei compagni tutor, hanno realizzato i gatti della storia con la tecnica del collage – Video di Mauro Longo

“Pinocchio un bambino come me…”

Galatone (Le) – 7 giugno 2019 – Teatro Comunale – Recital “Pinocchio un bambino come me…” delle classi II a e II B della scuola primaria Don L. Milani dell’I. C. Polo 1Progetto Lettura/Teatro “Ti racconto una fiaba”– Docenti: Loredana Inguscio (referente progetto), Mariarosaria De Braco, Maria Stella Ferrara, Barbara Musardo, Concetta Danieli con la collaborazione di Marilena Casaluci, Mary Galante, Luciana Fanuli – Esperte: Margherita Manco e Daniela Aloisi – Dirigente Scolastica: Adele Polo – Video di Mauro Longo

IV Giornata Mondiale della Lingua Ellenica – Liceo Classico Nardò (Le)

Nardò (Le) – 9 febbraio 2019 – I.I.S.S. “Galilei” Liceo Classico – IV Giornata Mondiale della Lingua Ellenica – Progetto a cura delle docenti Alberta Barone, Agata De Martinis e Sabrina Vissicchio e degli alunni Sofia Campa, Giulio Valente, Gaia Schirinzi, Biagio Orlandino, Pasquale Muci, Marialaura Potenza, Federica Dell’Anna, Carola Plantera e Salvatore Calciano (classe IV B) – Ballerina: Sara Albano – Si ringrazia la dr.ssa Santina Dell’Anna per la cortese ospitalità presso la Biblioteca Vergari di Nardò (Le) – Video di Mauro Longo

Il termine ICONICO è inteso nel senso di “archetipico”. L’archetipo è l’eterno modello delle cose che influisce sull’immaginario collettivo e sullo sviluppo dell’identità personale. La parola, infatti, esprime l’interiorizzazione dei modelli di riferimento acquisiti. Gli archetipi, le tradizioni, i miti, i simboli dei Greci, reinterpretati, viaggiano nel tempo e rinnovandosi, permettono la trasmissione di un patrimonio prezioso.

Il Libro… scrigno di emozioni, piacere, conoscenza

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Galatone (Le) – 31 maggio 2018 – Sala Teatro plesso G. Susanna – Gli alunni della classe 2^ B del plesso Don Lorenzo Milani hanno presentato lo spettacolo teatrale “Il Libro… scrigno di emozioni, piacere, conoscenza”, progetto lettura – cittadinanza tratto dal libro “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare!” di Luis Sepulveda – Insegnante referente: Lucia Filieri – Insegnanti: Lucia Filieri, Tonia Innocenti, Tonia Carrisi – Dirigente Scolastica: Adele Polo – Video di Mauro Longo

“Storia Mitologica del Diluvio Universale” – Classi Quinte Polo 1 Galatone (Le)

Galatone (Le) – 6 giugno 2017 – Palazzo Marchesale – La “Storia Mitologica del Diluvio Universale” ha coinvolto 96 alunni di classe quinta dei plessi del Don L. Milani e G. Susanna del Polo 1 con le loro docenti, con la guida esperta della regista Diana Costa e con la maestra di danza Patrizia Conte. Tutti gli uomini nella loro vita possono cadere in tentazioni e accecarsi di superbia e di cattiveria. Gli dei non accettano simili condizioni umane e attraverso il diluvio li puniscono. Si salvano solo due uomini più devoti e rispettosi. Ma loro pur avendo la vita salva non accettano la solitudine nel mondo e per questo motivo attuano la rinascita attingendo dalla madre Terra gli insegnamenti di giustizia. Una grande metafora della vita che lascia uno straordinario messaggio: “Lealtà, giustizia, bontà e convivenza con le genti”. Questo è il mondo che tutti cerchiamo e ognuno di noi con responsabilità può realizzare – Video di Vincenzo Zizzari

Al voto! Al voto!

"Al voto! Al voto!" di Enrico Longo

“Al voto! Al voto!” di Enrico Longo

“Le storie di Seba”

di Enrico Longo

n.3

Al voto! Al voto!

 

Il Natale era ormai lontano, ma non s’era ancora spenta l’eco della straordinaria impresa di Seba e del geniale studentello dell’asilo cittadino. Per un bel po’ di tempo entrambi ebbero a godere delle piacevoli conseguenze delle brillanti proposte.

All’ingresso nella scuola primaria, guadagnato con un anno d’anticipo per meriti civili, il piccolo fu accolto con tutti gli onori. Il sindaco Tromboni con la fascia, gendarmi in grande uniforme, scolaretti impettiti con il vestito della domenica. Tutti guardavano a lui come a un esempio da imitare. I papà lo invidiavano, le mamme lo additavano ai figli, il parroco lo volle primo chierichetto e gli assegnò la messa di mezzogiorno.

Anche per Seba non mancarono i fasti e i riconoscimenti.

Il Tromboni lo invitò a palazzo e tra una pizza e una gassosa lo fece parlare di tutto e di più, annotando con pazienza e scrupolo ogni concetto che gli sembrasse utile per l’oggi e il domani. E al nostro Seba, che non credeva ai suoi occhi e alle sue orecchie, parole e concetti uscivano a cascata.

Non c’era giorno che non venisse invitato a una cerimonia ufficiale, a un convegno o a un pubblico dibattito. Le associazioni lo inseguivano, le televisioni se lo contendevano. E Seba, con pazienza e spirito di sacrificio, cercava di onorare ogni impegno e di non scontentare nessuno.

I partiti politici di destra e di sinistra, di sopra e di sotto facevano a gara nel cercare il modo di portarlo dalla propria parte e le promesse si sprecavano: sindaco? assessore? supervisore? televisore? Incarichi di grande responsabilità, non c’è che dire, e il nostro Seba, non avvezzo a tali e tante adulazioni, incerto e interdetto, stava per dire umilmente: «Fate voi!», quando improvvisamente un boato squarciò l’aria e una voce metallica annunciò solennemente: «Al voto! Al voto!».

Quello che seguì all’annuncio è impossibile da raccontare. Come morsi dalla tarantola e spinti da un turbo tutti cercarono di guadagnare l’uscita. Non c’era tempo da perdere, bisognava far presto, e allora via con spinte, spallate, pizzichi e sgambetti, mentre il sindaco, messo nel mezzo, si teneva disperatamente la fascia con le due mani, nel timore che qualcuno gliela portasse via. In un batter di ciglia la sala restò vuota e Seba si ritrovò solo, nel centro, con la parola che non aveva fatto in tempo a venir fuori.

Nessuno pensò più all’eroico scolaretto, tutti dimenticarono le promesse fatte a Seba e con esse anche le accorate raccomandazioni più volte ripetute nei tanti colloqui, nei talk show e nei dibattiti: salvaguardare il bel paesaggio di Città Gaia, tenere lindo il ruscello che scendeva dalla collina a dissetare la cicoria e la ruchetta e i fiori delle piazze e dei giardini, non trascurare le spighe che davano da vivere a tanta parte della popolazione, tenere a cuore quelle persone che, come suo padre, facevano i salti mortali per sbarcare il lunario. Ma gli intendimenti degli avveduti e scafati politici si erano decisamente indirizzati su strade diverse. E in queste strade non abitavano i buoni propositi. Anziché ricorrere ai cervelloni, che a Città Gaia si sarebbero pure trovati, si fece ricorso a battutisti e parolai e agli emeriti ciarlatani che non sapevano di economia o di filosofia, di storia o geografia e che non avevano mai mosso un dito per scrivere  o un braccio per lavorare, ma che erano imbattibili nel trovare ogni frase a effetto per colpire, dileggiare o distruggere l’avversario e per trasformare in oro colato qualunque messaggio, vero o fantasioso, onesto o cervellotico che decidevano di lanciare.  Ce n’erano tanti a Città Gaia di questi signori, il più ricercato dei quali era un tale signor Broglio, specialista, come si leggeva nell’insegna in “chiacchiere e patacche per tutti gli usi”. Di corsa allora a farne incetta.  Senza badare a spese. Bisognava scegliere – e scegliere bene – le parole più indicate, quelle capaci di attirare l’attenzione, di risultare convincenti. Qualcuno partì con “cambiamento”; un altro preferì “sviluppo”, un altro ancora “progresso”. I più audaci si spinsero fino a “svolta”, “benessere”. Infine ci fu perfino chi osò parlare di “ricchezza e felicità per tutti”.

Insomma programmi ambiziosi: quattro schieramenti in lotta per rendere Città Gaia il posto più ricco e felice del pianeta.

Coi taccuini ridondanti di frasi a effetto, slogan e promesse furono presto tappezzati case e palazzi, giardini e scantinati, stalle e tombini. Intanto facevano la loro apparizione i primi comunicati, elaborati in tutta fretta per colpire in anticipo, molto curati nei contenuti offensivi e demolitori, un po’ meno nel rispetto della punteggiatura e nelle regolette grammaticali. Per tali caratteristiche i comunicati di tutti gli schieramenti, di destra, di sinistra, di sopra e di sotto furono interdetti dal parroco ai fedeli perché contrari alla morale e dalle maestre agli scolaretti, perché rischiavano di vanificare il lavoro di un anno scolastico.

Finalmente, all’alba di una domenica mattina nella piazza centrale furono esposti i programmi. Parole alte, solenni, arcane, da far accapponare la pelle, che il popolo leggeva con malcelato giubilo: “cambiamento-sviluppo-progresso-svolta-incroci-benessere-ricchezza”. Le stesse parole nelle quattro bacheche, solo in diversa successione. Si partiva dall’una o dall’altra parola, ma l’insieme era lo stesso, come pure identico era un altro aspetto. Accanto, o sopra o sotto a ciascuna di queste parole non seguiva null’altro: né un elenco, né una spiegazione, né un esempio. Nulla, soltanto le solenni parole acquistate a suon di soldoni dall’emerito signor Broglio, la cui specializzazione era in semplice “chiacchiericcio e cialtroneria” e non prevedeva né concetti, né spiegazioni, né ragionamenti.

Seba restava alquanto perplesso. Come si fa a scegliere – si domandava – se tutti promettono le stesse cose e se nessuno ci dice chiaramente cosa ha intenzione di fare?

E la sorpresa maggiore era nel vedere accendersi polemiche e risse tra le parti in conflitto a difesa del proprio programma e all’attacco di quello degli altri. «Oscurantisti – si diceva degli altri –, superati, retrogradi! Siete la rovina di Città Gaia.» E tutti, in particolare, a dare contro al sindaco Tromboni. Che non aveva fatto nulla, che aveva trascurato la città, che aveva affamato i cittadini. Un disastro, una vera iattura che ciascuno si riprometteva di scongiurare. Come? Attraverso il cambiamento, lo sviluppo, il progresso, la svolta, etc. etc. Ed era inutile chiedere di scendere nei particolari, di chiarire, di fare esempi, di spiegare il che e il come. Ed era questo che lasciava il nostro Seba nello sconforto. Quelle magiche parole erano, in fondo, le sue parole, quelle che aveva ripetuto al Tromboni e ai responsabili dei partiti di destra e di sinistra, di sopra e di sotto. Tutti le avevano ascoltate e appuntate. S’erano forse dimenticati di appuntare quanto aveva detto dopo, spiegando per filo e per segno il cosa e il come del cambiamento, dello sviluppo, del progresso, e via di seguito. Si succedevano i comitati, e nulla cambiava; si affiggevano i manifesti ed era sempre la solita musica. Seba ascoltò a uno a uno tutti i dibattiti e i comizi e non ebbe mai la fortuna di ascoltare un’indicazione, una precisazione, un esempio concreto. Soltanto e sempre slogan, offese e frasi a effetto.

Dopo le ultime schermaglie, nelle quali ciascuno si era sforzato di dare il meglio di sé, la sua confusione toccava ormai i livelli più alti.

“Chi vincerà la tenzone? A chi la responsabilità di governare?”, si chiedeva tornando lentamente a casa. Nessuna risposta aveva il potere di confortarlo mentre aumentava il sospetto che soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare Città Gaia. E il miracolo inaspettatamente prese piede.

Ne parlò col babbo, che ne parlò ai parenti, che ne parlarono ai vicini di casa, che diedero vita a un “pissi bau” che raggiunse i coltivatori delle spighe preziose e quanti vivevano lungo il torrente e i tanti che facevano i salti mortali per assicurare almeno il minimo ai propri figli. Tanti davvero, la gran parte di Città Gaia, tutti lavoratori instancabili che non avevano tempo per le chiacchiere e le patacche, che non sapevano offendere e che amavano vivere nella pace e nella concordia. Tante persone, che spaventavano un po’ i signori delle chiacchiere e delle poltrone. Dinanzi al pericolo i tanti decisero di scendere in campo e dire la propria. Mandarono in esilio il signor Broglio e i suoi colleghi e scrissero di proprio pugno l’elenco delle cose da fare. Poche parole, semplici e chiare, che ripetevano quanto da Seba più volte raccomandato nei dibattiti e nei talk show, carichi di buoni principi e di rigore grammaticale perché passate al vaglio del parroco e della maestra. Ne uscì un documento che fu letto e approvato dall’intera città, che non dispiacque neppure ai quattro contendenti di destra, di sinistra, di sopra e di sotto che cominciavano a provare un po’ di vergogna per quanto già detto e per quanto già fatto. A uno a uno ritirarono il proprio programma e rinunciarono alle proprie ambizioni.

Sarebbe stato quello il nuovo programma, il programma dell’intera città. E la gente, nella piazza principale, secondo una tradizione ormai consolidata, si sarebbe trovata unita e concorde nell’indicare il personaggio giusto a dare contenuto e forma al programma di tutti.

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“Al voto! Al voto!” di Enrico Longo

La speranza di Seba

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“La speranza di Seba” di Enrico Longo

 “Le storie di Seba”

di Enrico Longo

n.1

 

La speranza di Seba

 

Città Gaia era scritto sulla carta geografica; Città Triste l’avevano ribattezzata i suoi abitanti. E il nome sembrava senza dubbio calzante, perché oltre il sole e il mare e le vestigia di un passato che alcune leggende descrivevano onorevole, non c’era nient’altro: soltanto una lunga distesa pianeggiante ricoperta d’erbacce e di rovi, dove come per miracolo spuntavano erbe selvatiche buone al palato e colorate bacche dolci e succose: il cibo che la mano della Provvidenza aveva destinato per loro. E infatti sempre e soltanto bacche ed erbe selvatiche potevano vedere a tavola i suoi abitanti, la mattina a colazione, e poi ancora erbe e bacche a pranzo, e lo stesso a cena. Sempre così, anche la domenica e il giorno di Pasqua. Bacche ed erbe anche a Natale e il 32 gennaio, la principale festa cittadina. Gli abitanti di Città Triste erano persone perbene, oneste, non avevano mai rubato, anche perché non si potevano rubare il sole o il mare, né sembrava opportuno, tutto sommato, rubare i rovi o le erbacce, che venivano fuori in grande quantità. Avevano però, queste persone, dimenticato le cose buone di un tempo, muovere braccia e gambe e guardarsi intorno, parlare e ascoltare, come vuole il buon Dio, che ci ha dato, per tale occorrenza, una bocca e due orecchie. Nessuno aveva più cura di ramazzare la piazzetta cittadina, anche perché nessuno ormai ci metteva la punta del naso: tutti erano intenti ad ascoltare le chiamate delle Muse. E non c’era mano che si preoccupasse di dar decoro alla chiesetta, che se ne restava ormai negletta e abbandonata; da tempo ormai s’era dimenticato il suono argentino della sua campanella, che alle sei del mattino dava la sveglia e richiamava ai doveri giornalieri. Il fatto è che i cittadini di Città Triste non avevano più tempo per queste cose, inutili e banali. Avevano scoperto di essere grandi artisti e illustri geni, ciascuno almeno un metro al di sopra degli altri. In ogni famiglia c’erano almeno tre artisti su quattro; pochi però ce n’erano tra le donne, specie se sposate, quelle che ogni giorno avevano il poco invidiabile compito di preparare il pranzo e servire a tavola. In quei particolari momenti in ogni famiglia c’erano litigi e grida, le mogli si facevano sentire, a volte accompagnandosi con strumenti da cucina, alcuni dei quali furono detti matterelli perché usati da quelle donne nelle occasioni in cui erano veramente “fuori dai gangheri”. Sebastiano era il solo a custodire in cuor suo la segreta speranza che potessero tornare, prima o poi, i tempi che furono: li aveva sentiti dal babbo, che li aveva sentiti dal nonno, e questi dal bis e dal doppio-triplo e quadruplo bis. Tempi felici e di abbondanza e persone diverse, tanto tanto diverse e altro non aggiungeva perché non era riuscito del tutto a comprendere.  E nella speranza di un felice ritorno al passato, pensò bene di farsi carico di tutte le incombenze. Correva dunque di qua e di là, senza posa, dall’alba al tramonto, con quel piccolo intervallo delle ore di scuola, utili a riempire la testa di numeri e di concetti. Ma poi subito di nuovo a casa, sempre di corsa e sempre di fretta. Così andavano avanti le giornate di Sebastiano, costretto dalla frenesia del procedere a risparmiare perfino sul nome, troppo lungo da pronunciare e ridotto a Seba. Ormai tutti Seba lo chiamavano e così aveva finito per chiamarsi anche lui. Risparmiare sul tempo per fare qualcosa in più, in quella vita di fatica e di silenzi. Perché nessuno aveva tempo per guardare agli altri, scambiarsi una parola, un saluto, per fare una chiacchierata. Le giornate del nostro Seba si aprivano alle prime luci dell’alba con la necessità di tirare la coda al gallo che, scoraggiato per non essere più ascoltato da nessuno, aveva ormai rinunciato perfino a lanciare il suo precoce chicchirichì. La situazione turbava perfino i santi protettori di Città Triste, che guardavano con preoccupazione alla chiesetta abbandonata e all’indifferenza generale degli uni con gli altri. Non c’era fede a Città Triste, né amore, né solidarietà, per cui finirono anche loro, che tutti sappiamo armati di santa pazienza, col perdere le staffe e decidere di scendere in campo. E nei drammatici avvenimenti che seguirono si può certamente notare la loro presenza. Una signora, una tale Demonia De Svitatiis, si diede un giorno col suo matterello a menare non solo al marito e a tutti i figli maschi, ma anche sui quadri, quadretti e sui fogli di musica, gridando con ferocia: «Ve la do io la musica, ve la do io la pittura se poi non c’è nulla da mangiare, se dobbiamo sempre assaporare quel maledettissimo sapore dolciastro delle bacche e quello amarognolo dell’erba selvatica». Alcuni mariti, spaventati, pensarono che fosse prudente allontanarsi per un certo periodo dalla loro città e decisero di andare in volontario esilio in altra più igienica zona, sino all’avvento di giorni più propizi. Approdarono a Cerealiland, una cittadina non troppo lontana, non bella e pittoresca come Città Triste, priva di artisti e poeti e abitata solo da contadini, non molto istruiti, ma onesti, forti e laboriosi. Qui non si riposava mai, tutti sempre a lavorare, sempre a coltivare i campi. Non c’era l’università in questa cittadina, né scuole liceali, c’erano soltanto tre asili  infantili e mezza scuola elementare, nessuno conosceva il latino, nessuno sapeva di greco, tutti odiavano le lingue straniere. La loro passione erano i campi, gli alberi da frutta e le erbe… coltivate. Quella più diffusa era una certa spiga che, a loro dire, era la pianta più nobile e preziosa. Ai profughi sembrava strano tutto ciò e qualche volta, di nascosto, ridevano della dabbenaggine di quella gente, che passava tanto tempo a curare quella strana pianta, piccola, con uno stelo talmente risicato, così magra e smunta da sembrare l’emblema della fame, non certo dell’abbondanza. E invece per quelli era la pianta più nobile, più preziosa, più utile. Osservavano attentamente il loro operato e li vedevano gioire quando pioveva. Dicevano: «Meno male che piove. Chissà come si disseteranno le spighe.» E quando per lungo tempo non pioveva, li vedevano afflitti: «Chissà come soffriranno le spighe per questa lunga siccità.» E subito giù a portare acqua, a costruire argini intorno al fiume, a fare canali e a dirigere l’acqua verso le spighe. E poi tutti soddisfatti a dire: «Siamo stanchi, ma almeno le spighe staranno finalmente bene.» La sera, tutti insieme, seduti accanto al fuoco nello spiazzo più grande, parlavano e cantavano, bevevano e ballavano e si raccontavano le storie più belle e non dimenticavano di guardare al Cielo e di ringraziare il Creatore. La domenica mattina, tutti insieme nella chiesetta, linda e pulita, dove veniva solennemente riposta la spiga più bella. Quando arrivò la primavera non pensarono più all’acqua e sembravano contenti nelle giornate di sole. Li si sentiva dire: «Forza sole, asciugale, rinforzale, biondeggiale!» .
In una giornata di giugno i nostri esuli furono svegliati da un colpo di cannone, dal cantare dei galli, da campane e campanelle, da trombette e tric trac. Per tutte le strade era tutto un correre: correvano gli uomini, correvano le donne, correvano i vecchi, i bambini, gli zii e i cognati, i nipoti e i cugini; tutti verso i campi, saltando, cantando, sghignazzando. Cos’era successo? si chiesero. La rivoluzione? Sono scesi i marziani? Niente di tutto questo. Andavano tutti a tagliare le spighe e le accumulavano, ne facevano mucchi, le battevano, nei giorni successivi presero a calpestarle. A chi chiese spiegazioni fu risposto che era arrivato il tempo del raccolto, i giorni dell’abbondanza e della felicità. E quindi videro quelle spighe ridotte in polvere e poi impastate con acqua e prendere forme strane. Sentirono dire che quella roba era la più gustosa leccornia esistente. Furono invitati, increduli, i nostri esuli, al primo banchetto ufficiale e ne restarono conquistati. Improvvisamente capirono di aver sbagliato tutto. Decisero dunque che dovevano fare qualcosa per le loro donne, per i loro bambini, per i loro vecchi. Anzitutto presero a pulire le stradine della loro città e curarono in ogni modo la chiesetta, che divenne pulita, accogliente e profumata d’incenso e di fiori. Tornarono a guardarsi negli occhi e a parlare, a raccontare le cose belle e le cose tristi e a saper trovare ogni volta le parole più opportune. Ricordarono quanto avevano visto durante il loro esilio e il miracolo di quella esile pianta che portava abbondanza e benessere. Dissodarono il terreno e vi deposero le preziose sementi, lavorarono e lavorarono, sudarono e sudarono. Non pensarono mai alla fatica e alla sofferenza: fecero esattamente tutto ciò che avevano visto fare agli abitanti di Cerealiland. Con l’aggiunta di una cosa soltanto. Come ho detto, essi erano artisti e vollero dare il tocco della loro arte a quella cosa che chiamarono pasta. E così vennero fuori le tagliatelle, i rigatoni, le lasagne lisce e ricciolute, i granulini, i maccheroni. Tutte le forme di pasta che oggi vediamo sulle nostre tavole fecero la loro prima apparizione nelle felici tavolate di Città Gaia, non più Triste. Tutti erano soddisfatti, tutti erano beati, ma più beati e soddisfatti erano le mogli e i camerieri che, finalmente, ricevevano sorrisi e complimenti quando presentavano i piatti in tavola. Il nostro Seba, che aveva ormai più tempo a disposizione, pensò che fosse tempo di recuperare la seconda parte del suo nome e tornò a chiamarsi Sebastiano. Per quanto riguarda i santi protettori, decisero di riprendersi la normale pazienza, solo però dopo aver controllato che tutti gli abitanti, uno per uno, avessero recuperato i principi fondamentali del buon vivere. E per essere certi che non se ne potessero più dimenticare, pensarono bene di far ricorso a un pesante promemoria. Una stella presa dal cielo e deposta nel bel mezzo della loro città, con le sue cinque punte a ricordare che fede-amore-lavoro-cultura e solidarietà danno senso e significato all’esistenza. Quell’anno diedero un sapore mai provato alla festa del Natale.

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“Festa dei Bambini” 2016

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Galatone (Le) – 11 dicembre 2016 – Piazza Pertini – “Festa dei Bambini” a cura dell’Associazione Sportiva Culturale “Punto Danza” all’interno della manifestazione “Gustiamo l’Arte” organizzata dall’Unione Commercianti – Animatori: I bambini della Scuola Primaria del Polo 1 dei plessi “Don Lorenzo Milani” e “Giuseppe Susanna” e della Scuola Media “A. De Ferraris” e i bambini della Scuola dell’Infanzia “C. Collodi” del Polo 2 – Colori, voci, suoni e danze… un viaggio in un regno fatato abitato da misteriose creature: folletti, fatine, principi, maghi, streghette e stregoni – Video di Mauro Longo

LA MOSCA E L’APE

LA MOSCA E L’APE favola di Don Antonio Resta

“LA MOSCA E L’APE” favola di Don Antonio Resta 

LA MOSCA E L’APE

I discorsi che facevano gi animali terrestri non è che si differenziassero molto da quelli degli animali che volavano; l’unica distinzione era quella del luogo, costringendo chi li doveva annotare a prenderli, logicamente…al volo.

Fu il caso di una mosca e di un’ape che, incontrandosi, a volo ovviamente, avviarono una conversazione, adatta alla loro condizione di insetti volanti. Fu uno sfogo, di fatto, con sottolineature di quei problemi che accompagnano qualsiasi stato di vita.

Iniziò la mosca, rilevando come la sua vita era un continuo volo, senza una dimora. Vagava per ogni dove, a differenza dell’ape che aveva il suo alveare, una dimora ben precisa, dove era sicura di trovare le altre compagne che lavorano come lei.

L’ape stava a sentire, seguendo il discorso della mosca, approvando con un battito più veloce delle ali quanto l’amica casuale le veniva comunicando.

– Vedo, disse, che il tuo discorso è improntato a un certo pessimismo: se questo è l’inizio, già posso immaginare come sarà la fine!

– Brava! Mi accorgo che sei veramente perspicace, ebbe a dire la mosca, perché le cose stanno proprio così e te ne illustro i motivi.

Anzitutto mi si fa una guerra spietata: mi si vuole distruggere: hanno inventato addirittura, dei preparati chimici micidiali che mi annientano in un attimo: altro che camere a gas del regime nazista!

– Va bene, disse l’ape, ma per esserti così nemici qualche motivo ci sarà: non è che lo facciano così, cervelloticamente, per il gusto di ammazzare: c’è un detto popolare che dice: quello non farebbe male neppure a una mosca: non vi ci trovi una certa ritrosia nel doverlo fare anche a te?

Fai un po’ un esame del tuo comportamento e vedrai che non potrai non riconoscere una certa giustificazione a quanto ti fanno.

– Beh! sì, onestamente, ammise la mosca, qualche cosa a desiderare la lascio, ma purtroppo sono costretta dalle circostanze. Per esempio, per via della mia mancata dimora, sono costretta a saltare di qua e di là. Se aggiungi a questo la necessità di dover mangiare, allora c’è più di un motivo non dico per essere giustificata, ma almeno per essere compresa!

– Ma, disse l’ape, sii sincera e completa la tua esposizione. Sento dire che passi disinvoltamente, appoggiandoti, dallo sterco al pane, dal sudicio al pulito, al dolce e via elencando.

Ti pare che una cosa del genere possa essere accettata, ignorando le conseguenze delle malattie che ne possono derivare?

Senza contare quella che è una delle tue prerogative più irritanti. Sei noiosa, tanto è vero che sei portata ad esempio, poco invidiabile in verità, di questo modo di fare, lasciamelo dire, addirittura odioso: non lo hai sentito mai dire: sei noiosa come una mosca?

Se no, io dico, ti hanno scacciato una volta, basta! No! a ritornarci ostinatamente, noiosamente appunto! E poi ti lamenti.

Ma se lo vuoi proprio!

– Ah! ma io, disse la mosca, non me la faccio passare: anche io ho le mie vendette e me le prendo: non è che subisca tutto supinamente: ho una dignità…moscata anche io!

Ne vuoi sapere qualcuna? Dicevo all’inizio che vado e mi poso dappertutto, purché trovi da mangiare. Lo stesso avviene quando debbo fare i miei bisogni che, peraltro sono proporzionati a quanto mangio, quindi ridottissimi, appena un punto, non più grandi di quello di interpunzione.

Il bello sta proprio qui che qualche volta viene interpretato proprio come tale. Chi ci rimette, a scuola, è il povero alunno, con un giudizio scarso sull’uso improprio di questo segno.

La cosa diventa più grave in altri casi.

Anche uno che non è specialista sa che in musica un punto aggiunto a una nota ne prolunga il valore e la durata.

Pensate un po’ a un compositore che ha completato la sua partitura, magari lasciando sbadatamente il suo scritto su un tavolo: basterebbe che una mosca, così di passaggio, depositasse quanto ha digerito che tutta la composizione ne sarebbe stravolta, non solo tecnicamente.

Peggio ancora se un direttore d’orchestra se la trovasse sulla partitura che ha davanti o un orchestrale sul suo spartito, non c’è bisogno di tanta inventiva per immaginare il disastro contro cui si andrebbe incontro.

Questo, in musica.

Il disastro non è meno catastrofico nel parlare e, quindi, nello scrivere. Non per nulla la Sibilla, quella che veniva interpellata per ricevere una risposta sul futuro, si serviva di questo mezzo che, a seconda della sua collocazione, dava un significato differente alla frase (donde, l’aggettivo “sibillino”).

Vuoi un esempio? Ti potrai rendere conto come un mio atto, così materiale, possa assurgere a un ruolo così determinante.

Domanda alla Sibilla: ritornerò vivo dalla guerra?

Risposta: andrai ritornerai (.) non (.) morirai in guerra: come vedi a secondo di come si colloca il punto, la frase cambia completamente il suo significato.

Un’altra espressione ancora più chiara: la porta sia aperta. non si chiuda a qualsiasi persona onesta: sposta quel punto dopo il “non” e vedrai che significato scappa fuori: la porta sia aperta a tutti. non alla persona onesta.

– Senti, cominciò a dire l’ape. Dopo tutto quello che ho ascoltato, mi spiego come le persone cerchino di tenerti lontana.

 Mi sforzo di capirti anche se i nostri stili di vita sono totalmente differenti.

Anzitutto, e la prendo un pochino alla lontana, sono orgogliosa di appartenere a questa mia categoria di insetti, per tante benemerenze, tra le altre, quella di aver prevenuto quanto, soprattutto in campo umano, si è salutata come una svolta epocale. Mi riferisco a quella delle conquiste femministe con cui le donne sono diventate protagoniste nella conduzione e nel contributo allo sviluppo della società.

 Per noi, questo problema non è mai esistito, forse addirittura il contrario. Chi è nostro sovrano assoluto non è il maschio, ma la femmina, la figura dell’ape regina, ma regina davvero, sai…come sanno essere le donne quando rivestono una carica di grande responsabilità.

Ci tenevo a dirlo questo perché abbiate a guardarci con maggior simpatia e non solo per quanto di dolce produciamo.

E poi, anche a costo di procurarti qualche delusione sento il dovere di aggiungere che, realisticamente, non mi sento di poterti dare nessun consiglio: la tua natura è quella e non la puoi e, tanto meno, posso cambiartela io.

Pensa un po’, non è poco, mentre tu ti posi su tutto e non ci vuole tanto per indovinare anche i luoghi e i cibi che a noi fanno venire il voltastomaco, io, invece, chiamami fortunata, non ho altro luogo o cibo al di fuori delle corolle dei fiori. Ne suggo l’aroma e, anche se esternamente non si vede, ne mangio i colori.

Proprio, ma solo per questo, un suggerimento semplice sento di potertelo dare. Invece di posarti su ogni elemento e poi restituirlo in quel modo che abbiamo descritto, posati sul mio: so che ne sei ghiottissima e ogni occasione è buona per cibartene. Ti potrai posare, così, su qualsiasi foglio, anche su una partitura musicale, senza lasciare traccia, ma con la certezza che quella melodia non ne soffrirà, anzi continuerà a diffondere un’armonia che sa di pace e di serenità, comunque di dolcezza…

 Chi non ne sa l’origine attribuirà il merito tutto a te: te lo lascio con una gioia immensa perché vedo attuato il motto-programma che solo un poeta come Virgilio poteva enunciare con una formula sintetica, ma quanto mai espressiva: vos, non vobis: lavorate, ma non per voi…

Che gioia, cara amica mosca! Arrivederci e buon lavoro…Con l’augurio che possa mangiarne tanto del mio prodotto: diventerai meno noiosa. Ti allontaneremo sempre, ma sapendo che ci priviamo di un motivo musicale che ci solleva.

Pensavo: chi lo sa se il dolce “moscato” non è nato proprio dalla mosca, dalla sua natura in seguito degenerata?

Aggiungo: nel caso, proprio nessuna speranza di recupero?

  

Don Antonio Resta